RACCONTO
RACCONTO
5. ZiaPapera
Era l’ultimo giovedì di agosto e i quattro amici avevano tutta l’intenzione di godersi ciò che rimaneva dell’estate. Settembre con i suoi impegni pendeva sulle loro teste, ma nessuno di loro aveva intenzione di arrendersi all’autunno. Per questo, avevano organizzato una gita al laghetto delle papere che si trovava appena oltre l’ultima strada abitata.
«Bene, ricapitolando: crema solare? C’è... Cappello? Pure...» Celeste stava frugando nel suo zaino, preoccupata di prendersi l’ennesima insolazione.
«Io ho portato il frisbee e la palla super leggera!» Ambra nel frattempo armeggiava con la bici, tentando di legare in una qualche maniera tutto ciò che aveva con sé.
«I teli non saranno un problema.» Lele lanciò in aria per un secondo la sua sacca gonfissima. «Così possiamo sdraiarci e osservare le nuvole che cambiano forma... Adoro quel gioco!»
«Pranzo al sacco assicurato: mi sono occupato personalmente di tagliare il pane a fette e mamma ha preparato dei fantastici tramezzini con i ripieni preferiti di tutti! Stamattina li aveva lasciati in cucina prima di andare al lavoro e...» Chicco interruppe a metà la frase. Con lo sguardo perso nel vuoto e gli occhi sbarrati, iniziò a rovistare nel suo zaino dalle mille tasche. Quando riemerse la sua faccia non lasciava presagire nulla di buono.
«ENRICO» Celeste scandì il suo nome come non faceva mai, se non quando era infuriata. «Non dirmi che il nostro pranzo è rimasto sul tavolo della tua cucina!»
Chicco non riuscì a proferire parola, si limitò ad annuire. Prima che Celeste potesse iniziare a urlare contro lui e la sua sbadataggine, Ambra si mise in mezzo: «Bene, ormai quel che è fatto è fatto e tu abiti esattamente all’estremo opposto della città, quindi non se ne parla di tornare indietro a recuperarli. Ci vorrà ancora un quarto d’ora prima di arrivare al lago e siccome tu hai sbagliato... tocca a te rimediare. Fatti venire un’idea!».
Mentre pedalava Chicco si guardava intorno, come una vedetta sulla torre, per tentare di scorgere una soluzione al problema-cibo. Problema che lui aveva causato.
Fu allora che si ricordò del ristorante di sua cugina. Lucia l’aveva aperto da poco e non aveva certo un menù da premio culinario, ma la cucina semplice del suo locale era deliziosa. Inoltre, era sicuro che non avrebbe avuto problemi nell’offrire loro il pranzo. Per questo fece fare ai suoi amici una deviazione che parve infinita (colpa della fame), finché non arrivarono in vista di ZiaPapera, il ristorante che faceva giusto al caso loro.
«Guarda che non vale corrompere i tuoi parenti...» Lele lo scavalcò con una linguaccia, ma in realtà erano tutti entusiasti per la piega che aveva preso la loro giornata: non succedeva mai di poter ordinare senza pagare. Non appena furono dentro, un profumino invitante colpì le loro narici e si trovarono a sospirare senza volerlo.
«Chicco, ma che bella sorpresa!» Un ragazzo biondo venne subito loro incontro. I ricci gli ricadevano sulla fronte in maniera scombinata e mentre sorrideva un riflesso argento inondò il ristorante, dal momento che sfoderò un vistoso apparecchio per i denti.
«Ciao Simone!» Salutò il bambino allegramente. Poi però si ricordò del perché erano lì e si sentì in profondo imbarazzo: «Più che una sorpresa... direi un accidente!».
«Oh, cos’è successo?»
Enrico aggiornò in fretta il cameriere sulle circostanze che li avevano condotti fin lì. Pensava che ne sarebbe seguito un attimo di imbarazzo o quanto meno di incertezza. Invece, dopo averli ascoltati, l’espressione allegra non abbandonò il volto del giovane che gli diede una pacca sulla spalla mentre esclamava: «Ma sono proprio questi inconvenienti il bello della vita: senza, non saresti mai passato a trovarmi! Mettetevi a vostro agio, sarà un piacere avervi con noi a pranzo... vado ad avvertire la cucina!». Prima di scomparire dietro le porte si inchinò e fece il baciamano alle due bambine sussurrando: «Solo il tavolo migliore per voi, mesdemoiselles».
Lele stava per commentare, ma Simone tornò indietro alla velocità della luce: «Prego, prego seguitemi...» e li fece accomodare in un angolino riservato, vicino alla finestra, da cui entrava una bella luce grazie alla quale potevano osservare il giardino interno del ristorante.
«Beh, guardiamo il lato positivo... almeno abbiamo lo stesso la sensazione di fare un picnic!» Commentò Chicco che nel frattempo aveva riacquistato il buonumore. Tuttavia, quando un sonoro calcio di Celeste gli arrivò da sotto il tavolo, capì che non era ancora arrivato il momento per riprendere a scherzare.
«Abbiamo i menù, se lo desiderate; tutto sommato essendo un giorno lavorativo non abbiamo moltissimi clienti e voi siete ospiti speciali, quindi ho parlato con lo chef» disse Simone indicando la cucina, dove si iniziava a vedere del movimento «e siamo d’accordo che, nei limiti del possibile, esaudirà le vostre richieste. Perciò ditemi, bambini, che tipi siete: da primo o da secondo? Abbiamo dell’ottima tagliata di manzo... oppure vi vanno dei bucatini? Carlo li prepara in una maniera divina!» Procedette in questa maniera per un po’, finché non capì esattamente quali fossero i gusti dei quattro e, con un foglietto segreto, scomparve di nuovo per consegnare l’ordine a chi di dovere. Gli amici pensavano che, una volta svolto il proprio compito, si sarebbe occupato di altre faccende, magari più “importanti”, tuttavia Simone li raggiunse e unì una sedia al loro tavolo. «Siccome ci vorrà un pochino di tempo– non troppo, il giusto... prima che sbraniate anche la tovaglia – ho pensato di tenervi compagnia. Siete entrati qui che sembravate arrabbiati... ai fornelli stanno facendo di tutto per farvi tornare il sorriso con un bel pranzo; io nel mio piccolo ho pensato di intrattenervi finché non sarà pronto. Dovete sapere che quando non faccio il cameriere ho una passione molto particolare...» con un sorriso malizioso, tirò fuori dalla tasca un mazzo di carte da gioco, di quelle che usano i maghi per i loro trucchi. Così, i bambini tentarono invano di smascherare le sue magie e nel frattempo ogni arrabbiatura divenne un ricordo lontano. Solo quando suonò la campanella che avvisava che c’erano dei piatti pronti, si accorsero di quanto tempo fosse passato.
«È incredibile... hai davvero fatto una magia! Grazie! Ma... perché l’hai fatto? Cioè, non eri tenuto a tenerci compagnia e a farci stare bene...» Ambra era sinceramente affascinata dalla semplicità con cui il giovane si era preso cura di loro.
Simone si voltò, mentre si preparava a recuperare i loro piatti: «Perché un cameriere sa che nulla mette appetito come qualcuno che ti sorride. Vedete, è proprio questo il mio compito: accogliere, ovvero “far sentire a casa”. E io mi sento a casa ovunque io sia, quando vedo le persone sorridere... per questo, cerco sempre di farlo anche qui!».
«Cosa non erano questi paccheri? Divini!» esclamò Lele quando poggiò finalmente il tovagliolo sporco sulla tavola.
«Per non parlare del condimento del salmone... non avranno bisogno nemmeno di lavare i piatti: non abbiamo lasciato nulla.» Quello che diceva Ambra era vero: i bambini avevano spazzolato le portate, godendosi ogni singolo boccone.
«Se il dolce sarà all’altezza di ciò che ha preparato finora, dovrò per forza andare a fare i complimenti allo chef!» Chicco si batté sonoramente le mani sulla pancia piena.
«Sapete cosa vi dico? Andiamoci ora in cucina! Il servizio è finito e secondo me gli farà piacere sapere quanto abbiamo apprezzato il pranzo.» Ambra si alzò e gli amici la seguirono in cucina.
Quando i quattro entrarono, la prima cosa che notarono fu la pulizia. Tutto era in ordine, le superfici scintillavano e sui fornelli non restava neanche una piccolissima macchia di grasso. Se non lo avessero saputo, nessuno avrebbe mai indovinato che proprio lì, mezz’ora prima, avevano avuto origine quei piatti deliziosi che avevano divorato. Era tutto perfetto, se non che... «Non ci siamo! No, no, no! Non ha niente di ciò che avevo in mente io... manca qualcosa e non riesco a capire cosa!» Le urla venivano da un angolo seminascosto, motivo per cui i ragazzi inizialmente non vi avevo prestato caso. Appoggiato a un bancone di acciaio inox, c’era un signore che si passava le mani sul viso e il cappello che portava non lasciava alcun dubbio su quale fosse il suo ruolo. La sua divisa era intonsa, splendente, segno che riusciva a esercitare il mestiere con una precisione e una maestria uniche. Un piatto perfettamente composto che giaceva di fronte a lui era la causa del suo malcontento. Oltre il tavolo erano schierati cinque aiuto cuochi e sous chefs, tra ragazzi e ragazze: le mani incrociate dietro la schiena e lo sguardo ambizioso, di chi sa di dover dare ancora qualcosa, prima di poter raggiungere la meta.
Lo chef Carlo si stropicciò il volto con le mani prima di dire loro: «Riprovateci. L’idea è buona e il piatto potrebbe essere degno di nota, ma necessita un’aggiunta di agrumi o di aspro... dovete continuare a sperimentare. Rifatelo e poi chiamatemi quando avete terminato». Lasciò la sua brigata, che si rimise all’opera e così non poté fare a meno di notare i bambini. Si diresse verso di loro a passo svelto. Quando gli spiegarono perché si trovavano lì, non seppe se essere arrabbiato, dal momento che si erano intrufolati nelle cucine, o lusingato del motivo per cui l’avevano fatto. Prima che potesse dire qualsiasi cosa, Ambra fu più svelta: «Cosa stavate facendo prima? Quel piatto sembrava bellissimo e aveva un odorino...».
«Era bello ed era buono, ma io ho la certezza che loro potevano fare di meglio. Sapete, quando creiamo una nuova ricetta, come ora, mi aspetto tanto dai miei ragazzi. Se gli rimando indietro qualcosa, loro hanno due strade: si possono scoraggiare e arrabbiare, pensando che io sia ingiusto nei loro confronti, oppure possono spingere al massimo le loro energie e mettere in quella creazione tutto quello che hanno.»
«Stavate creando un nuovo piatto? Wow! E cos’era?» Chicco si sporgeva, tentando di indovinare dai resti.
«Eh no! Finché non gli darò l’approvazione, sarà segreto...» e Carlo strizzò loro l’occhio. «Poi non riesco a togliermi dal palato il sapore dell’incompletezza di questa preparazione. Il lavoro di un grande chef sta soprattutto nel saper scegliere i giusti abbinamenti tra i cibi... e tra i propri collaboratori!»
«Quindi è vero che come non tutti gli ingredienti stanno bene insieme, nemmeno tutte le persone possono andare d’accordo?» domandò Celeste.
«Non esattamente. Non tutti gli ingredienti stanno bene insieme, ma non è detto che con la giusta mediazione o con una loro rivisitazione, non si possano combinare degli abbinamenti strabilianti! Ad esempio, da bambino sono cresciuto pensando che non avrei mai potuto mangiare il pesce con il salume... e invece il filetto di salmone avvolto nella pancetta è diventato la mia specialità!»
«Ed era buonissimo... al solo ricordo le mie papille gustative hanno preso a ballare la samba!» esclamò Chicco facendo ridere tutti.
Carlo si rivolse infine a Celeste e aggiunse: «Vedi? Non è detto che da un abbinamento azzardato non possa uscire una combinazione sorprendente! Solo perché due persone sembrano avere due caratteri completamente diversi, non significa che non possano almeno provare a vivere bene insieme».
Lo chef Carlo li aveva lasciati, ma Lele non si era dimenticato del motivo per cui erano finiti in cucina: il dolce.
«Sentite, tutti questi cuochi che lavorano al nuovo piatto dello chef... avranno bisogno di qualcuno che assaggi le loro prove, giusto? Io mi propongo come degustatore ufficiale!»
Si diressero quindi oltre la dispensa, facendo lo slalom tra i vari banchi della cucina. La loro attenzione venne catturata da un ragazzo che, dietro a un fornello gigantesco, faceva rimbalzare un peperone sul ginocchio, come fosse un pallone. Tutto questo mentre mescolava il contenuto misterioso che bolliva in un pentolone. I suoi occhi verdi spiccavano sulla carnagione scura e il grembiule che indossava, un tempo bianco come quello dello chef, era ormai completamente ricoperto di macchie di sugo dai colori accesi.
«Oi crianças! Ciao nanetti! Cosa ci fate qui?» In quel momento diede un colpo all’ortaggio, che riuscì ad atterrare in perfetto equilibrio tra le sue due scapole. Fu un colpo da maestro.
«Certo che sei bello strano tu. Pensavo che qui dentro vigesse l’ordine più totale...» constatò Celeste guardandosi intorno.
«Cucina è sperimentare, cucina è innovare, cucina è creatività... e ritmo! Dimmi cosa ne pensi!» Con un movimento rapido, prese un cucchiaio pulito, lo tuffò nella pentola e lo porse alla bambina, che assaggiò. Subito dopo, però, enormi lacrime iniziarono a scenderle per le guance. Tossendo riuscì appena a sussurrare: «Un po’ troppo piccante, forse...» prima di scomparire alla ricerca di un lavandino. Il giovane cuoco era mortificato, mentre gli altri tre ridevano a crepapelle per l’espressione di Celeste.
«Scusa se te lo dico, ma temo che tu sia più promettente come calciatore che come cuoco...» Chicco alzò le spalle in segno di scusa. Il ragazzo assunse uno sguardo fiero e, abbassando la fiamma, iniziò a trafficare con le spezie prelevandole da vari vasetti che teneva sparsi sul ripiano. Nel mentre si indirizzò ai tre: «Mi chiamo Paco e sono nato in Brasile. Quando vivevo a Manaus non avevo una camera che fosse solo mia: l’unico posto in cui potevo giocare erano le vie del mio quartiere. Io e i miei amici vivevamo con il pallone attaccato ai piedi, praticamente ventiquattrore su ventiquattro a eccezione di quando dovevamo mangiare. A dirla tutta, anche in quei momenti riuscivamo a trovare qualcosa da far rimbalzare: un mango, un cucchiaio da tenere in equilibrio... Mia mamma lavorava sempre ed essendo io il più grande, dovetti iniziare a cucinare per tutti i miei fratelli molto presto. Non vi dico che disastro. Soprattutto perché non avevamo tutti quegli oggetti che ci sono qui: i microonde, i cibi già pronti... dovevo inventare con quello che c’era a disposizione e i risultati non erano sempre dei migliori. Anzi, a essere sincero, non lo erano quasi mai. Fare lo slalom con il pallone mi riusciva molto più facile che destreggiarmi tra i fornelli!».
«Sei brasiliano!» Lele spalancò gli occhi dalla meraviglia mentre Ambra gli disse: «Voi siete fortissimi a giocare a calcio... è nel vostro DNA! Tutti ti avrebbero voluto nella loro squadra qui in Italia!».
Paco continuò: «Vero, tutti mi avrebbero allenato più che volentieri, ma non faceva per me. Quello sport è e rimane semplicemente... uno sport. Una passione. Un hobby. Un ricordo di infanzia. Non volevo essere un calciatore mediocre e allenare qualche squadra provinciale solo perché il sogno di ogni ragazzino è diventare Ronaldo.
Io sono arrivato in Italia con mia madre, ho dovuto lasciare tutti i miei fratelli e le mie sorelle affidati alle cure delle nonne e... mi mancavano. Mi mancavano davvero tanto, per cui la maniera migliore per sentirli vicino a me era cucinare. Perché era un momento in cui stavamo tutti insieme e in cui io servivo davvero a loro. Così iniziai a studiare volumi enormi sulle tecniche di base: sfilettare un pesce, disossare il pollo, stendere la sfoglia. Mentre mia mamma guardava i quiz in tv, io guardavo i tutorial degli chef più famosi e poi cercavo di ripeterli. Ovviamente non sono migliorato in un batter d’occhio... e a quanto pare ho ancora molta strada da fare...». Con questa frase, indicò il piatto a cui stava lavorando. Mise in un pentolino delle verdure, un po’ di olio e quello che sembrava latte di cocco. Finì di mescolare il sugo di prima e poi impiattò il tutto.
«Quando si sceglie di mettersi in gioco, quando si inizia un lavoro, non tutto viene spontaneo. Non tutti i risultati arrivano quando ce lo aspettiamo. Non possiamo pretendere di dire: “Ecco, ho imparato. Ho letto un libro e preso un diploma quindi sono a posto per tutta la vita”. No, perché il bello di mettersi all’opera è capire che c’è sempre una tecnica nuova, c’è sempre qualcuno che inventa qualcosa a cui tu non avevi pensato o una bambina che assaggiando il tuo piatto ti dà uno spunto per correggerti... ed essere migliore di ciò che eri.»
Su queste parole presentò loro il piatto finito, che era bellissimo. Era colorato senza essere pasticciato ed emanava un aroma intenso. Porse a ognuno di loro un paio di posate, chiedendo di assaggiare e di essere sinceri. Quando i tre provarono la creazione di Paco rimasero deliziati e la loro gioia si unì alla sua.
Dopo aver aiutato Paco, l’aiuto cuoco, a far pratica con un piatto davvero degno di un ristorante, i quattro amici si diressero verso l’uscita, consapevoli che le cucine non erano un posto dove dei bambini potevano sostare a lungo. Giunti alla porta, videro uno dei battenti leggermente aperto da un piede che lo bloccava e una ragazza che con grande sforzo tentava di entrare trasportando ceste e cassette. Lele e Chicco quindi, decisero di agevolarle il compito, tenendole aperto l’uscio.
«Uh, siete proprio dei gentiluomini!» li ringraziò la ragazza non appena ebbe depositato ciò che trasportava in prossimità della dispensa. Un gigantesco cappello di paglia sormontava due trecce scure che le conferivano un’aria sbarazzina. Quando videro gli stivali di gomma e la salopette di jeans... «Ma sei una contadina!» si lasciò sfuggire Lele.
«Preferisco agricoltore, in verità... o meglio ancora Giuditta! Piacere di conoscervi!» ribatté infilando i pollici nei passanti della sua strana divisa. «Cosa ci fanno quattro bambini come voi in cucina? Avete un progetto scolastico?»
«È una lunga storia...» le disse Chicco «troppo lunga, meglio se non te la raccontiamo. Piuttosto, io pensavo che i contadini – volevo dire, gli agricoltori – non esistessero più. Sai, con i supermercati, le grandi industrie, le culture intensive...»
«Invece resistiamo ancora. Non fraintendermi, non è facile calcolando che loro guadagnano circa il quadruplo del nostro fatturato medio, con un utile netto di un milione e il dispendio energetico che è pari a un decimo della forza lavoro che ci devo mettere io.» A Chicco cadde la mascella dallo stupore, mentre la ragazza snocciolava queste cifre.
Giuditta scoppiò a ridere: «Io sono laureata in economia, piccoletto! Non lasciarti ingannare dalle apparenze».
«Adesso sono proprio curiosa: se sei laureata in economia, come sei finita a raccogliere... fragole’» chiese Ambra mentre sbirciava nella prima cassetta che aveva depositato. Lele, intanto, mostrava gli inconfondibili segni di chi aveva già testato: «E sono anche delle fragole dolcissime!» bofonchiò, quando si sentì addosso gli sguardi di tutti.
«Ormai sono quattro anni che ho abbandonato quel mondo. Poco dopo aver terminato l’università, fui assunta in un’azienda. Andavo in ufficio tutti i giorni e benché mi si prospettasse una brillante carriera, diventai sempre più infelice. Tutto intorno a me era grigio e io mi sentivo triste... non so spiegare il perché. I miei amici mi invidiavano per la posizione che ero riuscita a ottenere, ma io ero insoddisfatta e sentivo che la prospettiva di crescere in quel settore non mi avrebbe fatto crescere come persona. Decisi quindi di passare un weekend con i miei nonni. Loro vivono in Toscana e non hanno mai abbandonato il grande campo che circondava la villa di famiglia, anche se ora che sono anziani sono costretti a limitarsi nei lavori. Quella mattina mi dimenticai di staccare la sveglia e così fui svegliata all’alba. Non riuscendo più a dormire, scesi in cucina dove trovai il mio nonnino già vestito di tutto punto, pronto per uscire.»
«Non me ne parlare! Mio nonno va a comprare il giornale alle 6.15! Io gli ho spiegato che le notizie non cambiano anche se esce alle 9, ma niente da fare...» Uno «shhh» di Celeste zittì l’ennesimo racconto di Lele sulla sua famiglia.
Giuditta allora, con il favore del silenzio, proseguì: «Chiedergli delle spiegazioni, mi pareva il minimo. Allora lui mi consegnò un cappotto e mi fece segno di seguirlo. Io in pigiama, lui già con la divisa da lavoro, facemmo tutto il giro della casa fino ad arrivare nell’orto. “Devo togliere loro la coperta” disse indicandomi la distesa di carote che spuntavano appena dalla terra smossa. “Gliela metto tutte le sere, per paura che ghiaccino e ogni mattino le scopro in modo che possano godere dei primi raggi del sole. Faccio così ogni giorno, tutti i giorni da settantun anni.” Io provai a dirgli che non ce n’era bisogno, che ormai era anziano e doveva pensare alla sua salute invece di uscire con quel freddo. Lui, tuttavia, fu inamovibile: “Serve per farle crescere sane e gustose. Così come ci prendevamo cura di tuo padre e dei tuoi zii quando erano più piccoli, comprando loro dei cappotti in inverno e dei sandali in estate, allo stesso modo ora faccio con le verdure del mio orto. Se avrò fatto tutto quanto in mio potere per farle crescere, potremo coglierle e cucinarle e non rischieremo di rimanere senza”. Ovviamente gli spiegai che i tempi erano cambiati e che c’erano i supermercati a scongiurare la carestia, ma lui non mi volle ascoltare e rispose, semplicemente: “Ma lo senti che sapore queste? Sono così orgoglioso quando posso finalmente consegnare a tua nonna la cesta piena di prelibatezze: perché so che sono cresciute bene e che anche io, insieme alla pioggia, alla terra, al sole e ai semi stessi, ho contribuito a far spuntare questa bontà”. E da qui la storia la potete immaginare anche voi: invece di fermarmi un weekend, mi fermai un intero mese in cui appresi da mio nonno tutto quello che riuscii. Tornata a casa, abbandonai il lavoro e iniziai una mia coltivazione biologica. Ed eccomi qua, felice come non lo fui mai dietro una scrivania!».
In effetti il sorriso della ragazza non lasciò loro alcun dubbio sui frutti che quella scelta le aveva concesso di raccogliere. Non solo nell’orto, ma nella sua vita.
I bambini stavano ancora chiacchierando con Giuditta che, avendo notato la passione di Lele per le fragole, face loro assaggiare alcune prelibatezze del suo orto. C’erano dei buonissimi frutti di bosco, delle meline piccole e asprigne dal sapore unico e poi ancora uva, fichi verdi... ed era tutto così succulento. Fu allora che la porta laterale della cucina si aprì ed entrò Lucia, la cugina di Chicco, nonché proprietaria del ristorante, la quale ovviamente rimase stupita nel vederli lì. Chicco le raccontò in breve quello che li aveva condotti nel suo locale e Lucia convenne che era stata una splendida idea. Non si arrabbiò per il pranzo non pagato, limitandosi a esclamare: «Non vieni mai a trovarmi, il minimo che io possa fare è offrirti un pasto quando ci sei! Anche se devo ammettere che non capisco cosa ci facciate in cucina...».
«Colpa mia!» si affrettò a intervenire Giuditta. «Stavo facendo loro assaggiare la frutta fresca che ti ho portato per il servizio di stasera.»
«Come dar loro torto, amica! Ciò che esce dal tuo orto è così squisito che è quasi impossibile cucinare dei piatti cattivi usando i tuoi prodotti.»
«È da quando mi sono laureata che non mi facevi un complimento» scherzò la contadina di rimando.
«Perché di solito non c’è bisogno di esplicitarli. Ogni volta che aggiungo una cassetta in più di questo o un chilo in più di quell’altro al mio ordine, è già un complimento.»
«Eravate in università insieme?» domandò Ambra basita. «Certo che è davvero piccolo il mondo!»
«Compagne di corso, fino all’ultimo! Anche se poi la nostra vita ha preso strade diverse» rispose Lucia.
«Ma non ti sei dimenticata di me.»
«Anche volendo, era impossibile: sei la migliore nel tuo campo e in quanto proprietaria, è mio compito e dovere scegliere la migliore squadra possibile. Per questo sono riuscita ad aprire un ristorante.»
«Prima aveva un chioschetto giù al parco» sussurrò Chicco ai suoi amici come spiegazione, ma la cugina aveva sentito: «Già, da un bar sul cui futuro nessuno avrebbe scommesso, a quello che vedete intorno a voi. E ci sono riuscita solo grazie ai miei collaboratori. Prima ho assunto un cuoco capace e che sapeva capire quali erano i miei progetti, poi ho ingaggiato fornitori di materie prime di valore e un personale che facesse sentire accolti e benvoluti i clienti. Ora che ho tutto questo, mi devo occupare della visione di insieme... cioè devo assicurarmi che tutto vada liscio come l’olio, devo risolvere i problemi e gli intoppi, ma soprattutto devo offrire ai miei dipendenti una seconda famiglia. Così sapranno che anche qui dentro, se si litiga non è mai per sempre».
«Quindi tu comandi la squadra e gli altri eseguono i tuoi ordini» constatarono i bambini, a cui spesso stava stretto dover sottostare alle decisioni degli altri durante i giochi.
«Quello è ciò che fa un re, non un leader. Non credete a coloro che vi dicono che in una squadra tutti sono uguali. Ogni team ha bisogno di un capitano che sappia guidare la sua ciurma in ogni situazione e che la sappia consigliare, ma soprattutto ascoltare. A volte è inevitabile prendere delle decisioni, ma se prima se ne discute tutti insieme è ancor meglio! A proposito di discussioni... ho una riunione con il mio staff! Giudy, aspetto anche te!»
Così prese l’amica per il braccio e la trascinò in sala, dove il resto della squadra del ristorante le stava già aspettando, pronti per parlare, sbagliare e imparare... insieme.
Quel giovedì di fine estate si era concluso così: i bambini non avevano fatto un picnic, non erano andati al lago e non avevano guardato le nuvole cambiare forma.
Tuttavia avevano pranzato divinamente, avevano conosciuto persone con delle storie straordinarie e tutto ciò che avevano dovuto fare era stato parlare con loro. Per questo, quando venne il momento di salutarsi e tornare ognuno a casa propria, i quattro sorridevano.
Erano felici, semplicemente felici.
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