RACCONTO
RACCONTO
1. La casa sull'albero
Quella volta era iniziato tutto per caso, come spesso prendono avvio le migliori avventure. Soprattutto quelle estive.
L’aria era afosa quel sabato pomeriggio e i bambini si trovavano tutti a casa di Lele. Non avevano un piano particolare: l’unica certezza che avevano, e che si tenevano stretti, era di voler passare quella giornata di pausa dall’oratorio estivo insieme. Avevano appena finito di gustarsi un cono gelato in giardino quand’ecco che Ambra, dopo una decina di minuti assorta nei suoi pensieri, esclamò: «Ma certo! Come ho fatto a non pensarci prima!» e si batté vigorosamente la mano sulla fronte, scattando in piedi. «A questo giardino manca qualcosa, qualcosa che sia solo nostro... gli manca una bella casa sull’albero.»
«Ambra ha ragione: guarda quella quercia che se ne sta lì in mezzo tutta sola, è quasi triste. Ma con una casetta costruita ad hoc per lei sarà unica.» Gli occhi di Celeste riflettevano nuove prospettive e sogni lontani mentre lo diceva.
Chicco nel frattempo aveva già tirato fuori dei fogli e si era messo a fare rilievi tutto intorno al tronco dell’albero.
«Non sarà una semplice casa... sarà il nostro covo segreto. Anzi, no: un vascello dei pirati. Meglio ancora: un vecchio caccia bombardiere con cui dovremo difendere il cielo dall’invasione dei nostri nemici» e calandosi sugli occhi gli occhiali da pilota di suo nonno, Lele sfrecciò nel giardino di casa sua, come fosse nel bel mezzo di un inseguimento. «NIEOOOO» braccia spalancate, vento tra i capelli e i suoi amici dietro di lui. Tranne Chicco: «Scusate, secondo i miei calcoli, dopo aver confrontato la corteccia di questa quercia con il peso specifico nostro e dei nostri armamentari –nonché di una lauta scorta di viveri di riserva – ho calcolato che per la costruzione ci serviranno all’incirca... 121,48 kg di legno» e a suggellare la certezza della sua affermazione, il bambino annuì vigorosamente.
«Perfetto, dunque è deciso: dobbiamo solo metterci all’opera! Dov’è che tuo papà tiene la cassetta degli attrezzi?» domandò Ambra.
«La cassetta degli attrezzi è al suo posto» intervenne Augusto, il padre di Emanuele, che aveva involontariamente origliato il piano segreto dei quattro. «Ma prima di iniziare a pensare a saldatrici e pialle, perché non prendete la bici e fate un salto nella Falegnameria De Lillis, quella che c’è appena fuori dall’entrata sud del bosco dei conigli? Sono sicuro che lì ci sarà qualcuno di più esperto, che potrà aiutarvi a dovere.»
«Sei un mito, papà... quasi meriti un gelato anche tu!» scherzò Emanuele mentre con un piede aveva già inforcato la sua bicicletta rossa.
Poco più tardi, i quattro amici si trovavano appena fuori l’entrata sud del bosco dei conigli, all’ingresso della Falegnameria De Lillis.
«È davvero maestosa, chissà se avranno tempo di aiutare quattro bambini come noi... con tutto il lavoro che c’è qui!» disse un po’ intimorita Celeste, guardando l’edificio dal basso all’insù.
«Al limite ci dicono semplicemente di no, o di ripassare un’altra volta... dai, tutti dentro!» con la solita convinzione, Ambra aveva già aperto il portone.
«Aspettate, venite qui!» li richiamò una voce dal bosco.
«Chicco, non abbiamo tempo per osservare le cortecce con te, o raccogliere la linfa di qualche albero: la quercia che ha Lele nel giardino mi sembra perfetta. Senza dimenticarci che è l’unica che abbiamo.»
«Fidatevi e venite... il problema qui non sono gli alberi che ci sono. Ma quelli che mancano!» Così dicendo il bambino puntò l’indice paffutello verso un grosso spiazzo deserto davanti a sé, dove un tempo dovevano esserci state decine di alberi, mentre in quel momento… «Tronchi. Restano solo tronchi. Hanno abbattuto tutti gli alberi.» Dal tono preoccupato di Celeste, si capiva benissimo che non era la visione che si aspettava.
«Permesso, scusatemi, fate passare» esclamò in quel momento un camioncino con uno spiccato accento nordico. O meglio il guidatore di quel mezzo, che nel frattempo pensava allibito a cosa potessero mai farci quattro bambini lì, in quel pomeriggio d’estate.
«Fermo, si fermi la prego ... lei ci deve delle spiegazioni!» Lele si piazzò in mezzo al sentiero, con quel cipiglio che gli veniva sempre quando stava vivendo una delle sue avventure.
Il mezzo sterzò e con un balzo atterrò in mezzo a loro un uomo enorme, simile a un Ercole biondo, con la classica camicia di flanella arrotolata fin sui gomiti, un berretto di lana scura in testa e il profilo di un’accetta che si intravedeva nel rimorchio sovraccarico di tronchi d’albero. Fu subito chiaro a tutti e quattro che si trovavano al cospetto di un autentico esemplare di boscaiolo, originale nordico, per giunta!
«Se mi fulmini con quello sguardo, ragazzino, non posso fare altro che soddisfare le tue richieste» li approcciò con un sorriso bonario, da gigante gentile. «Ma chiamatemi Hans, vi prego: non mi sento ancora così vecchio.»
Lele stava per affrontarlo a viso aperto, ma Celeste lo precedette: le femmine sono sempre più veloci dei maschi quando sono preoccupate. «Tutti gli alberi che c’erano qui: abbattuti! Perché l’ha fatto? So che ha bisogno del legno per fare il suo lavoro, ma così ha cancellato anni di storia.»
«Solo se siete superficiali, potete giudicare il mio lavoro così in fretta bambini.» Hans intrecciò le braccia e si appoggiò al cofano del suo truck. «Con i boschi e le foreste non si scherza, sono un affare serio. Io più di tutti conosco la loro importanza. Vedete, i miei nonni erano di origine svedese e da bambino hanno fatto tutto il possibile per lasciarmi qualcosa della loro cultura, in eredità. Mi ricordo ancora i lunghi pomeriggi d’inverno in cui ero ammalato e Olga, la mia nonna, per non farmi pensare alla febbre, apriva un grande volume di storie e tradizioni nordiche che teneva in casa e iniziava a leggere per me.»
«Io adoro i libri di avventure. Chissà come doveva essere bello il tuo: montagne innevate, principesse da salvare, draghi... e vichinghi!» Negli occhi di Lele tutte quelle avventure si trovavano riflesse, come se le stesse vivendo.
«Sì, ma la maggioranza delle nostre storie iniziava sempre con un bosco. O una foresta. Il luogo assoluto della magia: dove tutto aveva inizio, dove potevi incontrare terribili orsi, fastidiosi folletti o incantevoli fate. Al suo centro, si trovava il padre della foresta: guardiano di quel mondo e protettore di coloro che ci abitavano, anche degli uomini che vivevano nei villaggi ai margini e tra i suoi alberi potevano trovare rifugio, nutrimento, sostentamento. Questa era la chiave: il padre della foresta si prendeva cura di tutti e in cambio esigeva che gli uomini per ogni cosa che prendevano, qualcosa lasciassero... o facessero crescere di nuovo! Per questo sono diventato boscaiolo: perché credo che in queste leggende ci sia un fondo di verità e perché mi prendo cura di questo bosco e degli alberi che lo popolano. Per ogni tronco che abbatto, ecco che ne pianto uno nuovo. Perché ci sia vita dopo di me, dopo di noi e perché l’antico ciclo della natura sia rispettato. Io sono un boscaiolo, ma non distruggo: io mi prendo cura.»
«E io che ero stata così prevenuta con quel povero boscaiolo! Invece ciò che compie e il motivo, nella sua semplicità, mi hanno messo di buonumore!»
Infatti sorrideva Celeste, mentre con i suoi quattro compagni di avventure varcava la soglia della Falegnameria De Lillis.
Benché fosse una piccola impresa locale, l’industria di artigianato era sufficiente per rifornire tutta la zona. Si trattava di un capannone abbastanza semplice, munito di un ufficio commerciale e un grande magazzino, appena distaccati. Quando gli amici furono dentro, un gran rumore di macchinari sovrastò ogni ulteriore loro frase. Grandi tavolacci, ovviamente in legno, ricoprivano il lato lungo dell’ambiente, ingombri di ogni genere di attrezzo: compassi, scalpelli, taglierini e poi ancora, di ogni fattura e per gli usi più disparati.
Non sapendo bene da dove iniziare, Ambra puntò dritta al primo lavoratore: un signore non più tanto giovane, con i capelli bianchi che, corti, gli circondavano la testa, il profilo diretto e le labbra sottili. Si vedeva, però, che dietro quello sguardo burbero si nascondeva una naturale simpatia, e forse fu anche per questo che la bambina lo scelse. Doveva essere nel bel mezzo di una pausa perché si trovava seduto, vicino a un suo compare, su dei gradini. Sulle ginocchia riposava un caschetto antinfortunistico, delle grandi cuffie per attutire il rumore dei macchinari in funzione e si era sfilato anche dei guanti spessi, che usava per evitare che sottilissime, ma dolorose schegge di legno gli si conficcassero nei polpastrelli. Era nel mezzo di un’animata conversazione con il suo amico, quando i ragazzini lo interruppero.
«Mi scusi se la disturbiamo» si intromise Chicco, aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Per caso sa dirci a chi possiamo rivolgerci per comprare 121,48 kg di legno?»
«Oh bestia!» rispose l’uomo scattando in piedi. «Hai sentito, Pino? Questi ragazzini cercano più di cento chili di “legno”.»
Il suo amico li guardò, schioccò la lingua e si rilassò sui gradini.
«Sentiamo» continuò il lavoratore «e cosa ne vorreste fare di tutto questo materiale?»
«Una bella casa sull’albero, signore!» Affermò Ambra, con risolutezza.
Gli occhi dell’uomo si ridussero a due fessure mentre passava in rassegna i quattro. «No, no, no. Non ci siamo» e fece un passo indietro, scuotendo la testa. Questa volta fu Chicco a sfidarlo: «Guardi che io ho fatto i miei calcoli e sono sicuro di non aver sbagliato. È matematico: quella è la quantità di legno che ci occorre per costruire una casetta sull’albero gradevole, di medie dimensioni, in cui passare comodamente i nostri pomeriggi e nel caso utilizzarla come rifugio segreto per le nostre riunioni».
«È proprio questo il problema, caro... come ti chiami?»
«Enrico.»
«Caro Enrico, tu vieni qui, da me, e mi chiedi dove potete trovare tutti quei chili di “legno”. Così non può funzionare. Vedete, io di mestiere faccio il falegname e la mia passione nasce proprio da qui: il “legno” non esiste. Esiste l’agrifoglio – bianco, con grana finissima, ottimo per l’intarsio –, il cembro – leggermente rossastro, si usa per gli oggettini di casa –, e poi ancora il noce, il larice, il palissandro... ognuno è diverso, ognuno ha il suo nome ed è giusto chiamarlo così.»
«Questo non l’avevo calcolato!»
Celeste si rivolse preoccupata ai suoi amici: «Adesso come faremo a scegliere?».
«Scegliere! Questo è il verbo giusto, il verbo che mi si addice. Il mio lavoro è fatto di scelte... e, sapete, non è mica facile! Devi essere sicuro che se stai per costruire quella sedia lì, con quella forma, il ceppo che hai in mano sia quello adatto per soddisfare determinate caratteristiche. Non puoi tornare indietro, una volta che hai iniziato ad assemblare. E se sbagli devi rifare tutto da capo: il che, vorrebbe dire che hai sprecato tempo e denaro. Soprattutto, scegliere vuol dire necessariamente dover rinunciare a qualcosa. Ad esempio, ogni tanto mi capita tra le mani del materiale grezzo che mi piace da impazzire: certi piccoli ceppi di abete bianco, flessibile e malleabile, o ancora delle partite di ebano, scuro e robusto, ma sono costretto a scartarli, perché non sono adatti per la realizzazione che mi è stata ordinata. E così capita anche nella vita; voi siete ancora piccoli e magari non lo capirete subito, ma ogni volta che sceglierete, pagherete il prezzo di tutto ciò che vi siete lasciati alle spalle. Sembra triste, ma è così che si diventa grandi. E quando guarderete a ciò che alla fine avete costruito, capirete che ne sarà valsa la pena.»
«Dai, adesso basta Eu. Saranno solo alle elementari e già gli stai preparando il discorso per la maturità!» Il compare del falegname, che fino a quel momento era rimasto in silenzio a osservare la scena, si alzò, batté una forte pacca sulla spalla dell’amico poi, lasciata la mano lì, a metà tra un appoggio e un abbraccio, si rivolse nuovamente ai quattro: «Dovete scusare il mio amico Eugenio, ogni tanto si fa prendere la mano con questi discorsi filosofici e gli passa via dalla testa il centro focale del discorso».
«Quanti anni è che ci conosciamo, Pino?»
«Almeno venticinque.»
«Ecco, sono circa trent’anni che ci conosciamo: le nostre mogli sono diventate amiche, i nostri figli fanno volontariato insieme, lavoriamo nella stessa azienda, io a fare il falegname, tu il costruttore. Io, che dovrei essere il più pratico, ho sempre la testa fra le nuvole e tu, che dovresti avere la mente piena di strampalati e assurdi progetti, mi riporti sempre con i piedi per terra: possibile che tu non l’abbia ancora capito?» domandò il falegname Eugenio, con un sorriso.
«Lei fa il costruttore, signor... Pino?» chiese Lele come qualcuno che aveva appena vinto alla lotteria. «Allora è l’uomo giusto per noi! È lei che stavamo cercando!» E in disparte, rivolto ai suoi amici: «Anche se uno che fa il costruttore in una falegnameria e si chiama Pino fa un po’ ridere: ammettiamolo».
«Ragazzino guarda che ti ho sentito!» L’uomo fece finta di arrabbiarsi. «Se proprio suscita in te tutta questa ilarità, puoi chiamarmi Giuseppe.»
Giuseppe il costruttore era leggermente più basso e rotondo, rispetto a Eugenio. Aveva dei folti capelli brizzolati e i baffi dello stesso colore completavano una faccia stanca, ma buona.
«In ogni caso, cercavate proprio me per il progetto della casa sull’albero?»
«Sì, lei è un costruttore e noi abbiamo bisogno di un paio di consigli su come realizzarla! Ci piacerebbe iniziare anche da subito e terminare... non so, domani pomeriggio? Domani sera al massimo?»
Ambra, Celeste e Chicco annuivano, soddisfatti del piano.
«Volete realizzarla voi quattro? Con le vostre mani?»
«Certo! Quattro persone, che lavorano contemporaneamente a un progetto di queste dimensioni, sono il numero adatto per essere celeri e non intralciarsi troppo» affermò Chicco, mentre scartabellava numeri e informazioni sui suoi quaderni.
«Venite, venite con me.» Il costruttore passò in mezzo al semicerchio formato dai quattro e si fece strada all’interno della falegnameria. Passò oltre i tavolacci e ai loro operai, oltre gli uffici della direzione e superò anche la sala pranzo. Arrivò in un angolino, che non aveva nulla di speciale: anzi, era quasi vuoto. Fatta eccezione per uno sgabello.
Un piccolo, insignificante sgabello, non particolarmente decorato e che non sembrava nemmeno troppo comodo. Giuseppe lo indicò e con fare vittorioso esclamò un “Ta-da” tipico dei maghi alla fine dei loro trucchi più spettacolari.
Celeste lo guardò e, spinta dalla buona educazione, si profuse in sorrisi e complimenti: «È davvero molto bello, signor Giuseppe: così definito e particolareggiato...».
Ambra, invece, lo guardava con il sopracciglio destro leggermente sollevato, chiedendosi perché fossero lì. Il costruttore risolse subito i suoi dubbi: «Questo sgabello è stato fatto da me più di ventant’anni fa. È stata la mia prima creazione: interamente progettato da me. Ora, Enrico, fai pure i conti sul tuo quaderno, ma ti sfido. Anzi, sfido tutti voi: chi sa dirmi quanto tempo mi ci è voluto per realizzarlo?».
Enrico iniziò subito a scartabellare, la lingua pinzata tra i denti con un’espressione di massima concentrazione.
Ambra azzardò: «Mezza giornata?». Ma Enrico non si lasciò cogliere impreparato e ribatté prontamente: «No, almeno una giornata intera! Dopotutto dobbiamo considerare che è stata la sua prima creazione e che l’ha realizzato interamente da solo».
«È proprio qui che ti sbagli, anzi che vi sbagliate tutti!» E un bonario sorriso affiorò sulla faccia di Giuseppe. «Per realizzare questo sgabello ci ho messo una settimana intera di lavoro. E non avrei mai potuto realizzarlo senza i consigli e i supporti di Eugenio. Ero un ragazzino testardo e anche un po’ presuntuoso, ma con l’età si sa, è giusto e normale. Volevo riuscirci, sapevo di poterci riuscire. Mi misi qui, il mio primo giorno, esattamente qui dove siete voi ora. Avevo il mio progetto in mano, i miei pezzi di legno di fronte e gli attrezzi legati alla cintura. Mi ero addirittura sfidato: “Giuseppe – mi ero detto – domani mattina ti potrai sedere sul tuo nuovo sgabello”. Lavorai come un forsennato, sicuro di me come poi non lo sono stato mai più. Se non ricordo male saltai anche il pranzo...»
«Beh, a me quello capita sempre quando sono preso da un’avventura» interruppe Lele, e sentendosi gli sguardi di tutti addosso, aggiunse subito: «poi recupero con la merenda, anche un esploratore come me non rinuncia mai alla merenda!».
«Oh, e noi che ancora stiamo ad assecondarti!» Celeste alzò gli occhi al cielo, ma non riusciva mai ad arrabbiarsi completamente con lui. «Continui, la prego. Che cosa successe dopo?»
«Successe che avevo quasi completato l’opera: mi mancavano giusto due chiodi. Ne infilai uno e con un colpo secco, crollò tutto quanto. Avevo usato un legno bello, ma decisamente troppo malleabile. Questo lo scoprii solo dopo, quando dovetti mangiarmi il mio orgoglio e chiedere il consiglio di Eugenio.
Ci riprovai il giorno dopo, ma lì scoprii che il mio progetto aveva delle piccole pecche pratiche che, essendo la mia priva volta, non avevo messo in conto.
Il terzo giorno ero così ansioso di terminare, che dimenticai un passaggio.
Il quarto tentativo non andò molto meglio e fu solo il venerdì che riuscii a concludere.»
«Però tutto sommato alla fine ne è venuto fuori un buon prodotto» disse Ambra, quasi a volerlo rassicurare.
Giuseppe esplose in una risata e la invitò a sedersi. La bambina si avvicinò con passo deciso, ma poi esclamò: «Traballa!». E anche lei iniziò a ridere.
Il costruttore non smise di farlo, quando aggiunse: «Finire l’avevo finito, buono mi sembrava buono... ma era totalmente non funzionante!».
«E non ha più rifatto uno sgabello, da allora?» domandò Celeste stupita.
Giuseppe gli spiegò che no, come loro potevano notare non aveva abbandonato la sua carriera con il legname. «Semplicemente» ammise «non ho mai voluto buttarlo né rifarlo, preferisco tenerlo qui e ogni volta che mi serve un promemoria, basta che mi ci sieda sopra!»
«Un promemoria di cosa?» chiese sempre la bambina.
«Dei suoi limiti!» ad Ambra si spalancarono gli occhi.
«Esatto! Ogni volta che penso di poter prendere delle scorciatoie o di poter lavorare da solo, ogni volta in cui sono convinto che non mi costerà fatica e che vedrò i risultati in poco tempo, mi siedo su quel brutto sgabello traballante e ricordo a me stesso quali sono i miei limiti. Poi mi guardo intorno e ho la conferma di essere anche in grado di superarli e di superarmi. Ma devo iniziare, un passo alla volta.»
«Ci sta dicendo che non possiamo costruire la nostra casa sull’albero?»
«Vi sto facendo capire che non basta venire qui e chiedere del “legno”: serve un progetto, serve il tempo, poi forze e capacità... non potete semplicemente comprarle, non potete acquisirle in un weekend. Se davvero vorrete la vostra casa sull’albero sono sicuro che troverete un modo. Ma prima anche voi avete dovuto “sedervi sullo sgabello”.»
Ambra si rivolse ai suoi amici: «Il signor Giuseppe ha ragione... è stato bello sognare, ma ha ragione lui».
«Sì, ma questo vuol dire che non potremo più vivere le nostre avventure: le avevo già immaginate tutte... e poi notti intere a osservare le stelle, saltare da una liana all’altra come nella giungla, studiare mappe del tesoro... e non finiva mica qui l’elenco!» Emanuele con un tonfo si sedette per terra, a manifestare la sua delusione. «Ha ragione, ma io sono comunque triste.» Celeste, con semplicità, riassunse quello che tutti stavano pensando.
Si voltarono per ringraziare il costruttore, ma era già stato assorbito da un altro incarico. Il lavoro non aspettava, nemmeno i loro sogni.
Si guardarono e sapendo che nell’immediato non avrebbero potuto più fare nulla per il loro progetto, decisero di riattraversare la falegnameria e tornare a casa. Per quanto erano convinti di aver fatto la scelta giusta, le loro facce non potevano che essere dispiaciute.
«Non ho mai visto così tanti bambini tristi, in un pomeriggio d’estate!» La voce all’inizio li raggiunse da lontano e, con tutti quei lavoratori affaccendati, ci misero un po’ a capire da dove provenisse. Era un ragazzino, o almeno così sembrava loro. I boccoli scuri erano completamente ricoperti di pezzettini bianchi, riccioli di legno che erano saltati via e che lì erano rimasti incastrati; mentre dietro l’orecchio faceva capolino uno scalpello che non si sa come, riusciva a rimanere in equilibrio. Dietro tutta quella confusione di testa, due occhi vivaci e sognatori conquistarono subito gli amici, che si avvicinarono a lui. La sua postazione di lavoro era un disastro: colori, pezzettini di legno di ogni forma e dimensione e poi ancora martelli, levigatrici, scalpelli e scalpellini, piccoli oggetti per intarsiare e scavare facevano capolino qua e là o tenevano ferme pile di fogli con schizzi, progetti e brandelli di carta assorbente con rovesciati sopra rimasugli di acquerelli.
«Sei un artista!» Gli occhi di Celeste brillarono alla vista di tutte quelle sfumature di viola e di rosa.
«Dici bene! E voi, che ve ne andate per la falegnameria così sconsolati, chi siete?»
«Io sono Celeste!»
«Piacere, Ambra.»
«Io sono Enrico, ma tutti mi chiamano Chicco...»
«Puoi chiamarmi Lele!»
Il ragazzo sorrise e poi, con aria lievemente corrucciata, ribatté: «No, non vi ho chiesto i vostri nomi, come voi non avete chiesto il mio... vi ho domandato chi siete, chi siete davvero. Cosa c’è nel profondo del vostro cuore che vi rende unici?».
Per Lele la risposta fu immediata: «Io sono un avventuriero, un esploratore e in definitiva un sognatore. Non c’è avventura che mi sfugga. Questo mondo è una continua scoperta e io non posso, non voglio starmene fermo!».
Chicco mise la lingua tra i denti e, dopo un attimo, affermò: «Anche io esploro il mondo, ma in una maniera diversa... a me piace capirlo e calcolarlo e misurarlo e osservarlo... sì, osservare il mondo, per capirlo meglio: questo è il mio desiderio».
Celeste era rimasta in silenzio a osservare, domandandosi cosa fosse celato in lei. Poi un grande sorriso le illuminò il volto: «Io sono libertà e leggerezza. Io sono musica e colori. So che sono tutte queste cose e che in questo, riesco sempre a ritrovarmi».
Ambra si sentiva smarrita: non era da lei lasciar cadere una sfida in questo modo. «Io non lo so cosa ho nel cuore. So che dire che sono troppo piccola per saperlo è una scusa, perché è così facile dire qualcosa e poi cambiare idea: dopotutto, siamo solo alle elementari, abbiamo tutti il diritto di crescere e di scoprirci. Io sono Ambra e basta, voglio vivere per come sono e vivere appieno, poi tutto il resto arriverà con il tempo.»
«Con il tempo... e con l’impegno. Ricordatelo.» Il ragazzo la guardò fisso per qualche istante, ma poi la sua parlantina ebbe la meglio: «Ad ogni modo, e per giustizia, io sono Giulio. È un piacere vedere che non siete solo quei musi lunghi che fino a due minuti fa camminavano in questo corridoio. È bello vedere quanti tesori si nascondono dentro di voi».
«Toglimi una curiosità, ma tu parli sempre così strano?» gli chiese Ambra, tra l’ammirato e lo scocciato per tutte queste riflessioni che doveva fare per tenergli testa.
«Io sono un artista, parlare strano fa parte di me!» Ma adesso Giulio rideva.
«E dimmi un po’... cosa ci fa un artista qua dentro? Pensavo che una falegnameria fosse il regno di gente pratica: artigiani, ingegneri, progettisti e tutte quelle cose lì. Gente con le idee chiare e i piedi ben per terra» intervenne Chicco che, per l’occasione, era emerso dai suoi fogli e quaderni.
«Che cosa ci fa un artista qua dentro... Non me l’ero mai domandato! Innanzitutto, conviene partire dal principio: io sono un artista, ma sono anche un artigiano. E sono qui dentro perché di mestiere faccio l’intagliatore del legno... che è un parolone per dire che faccio le sculture, solo che al posto della pietra dura, come il marmo o la roccia, io utilizzo il legno.»
«Non sapevo nemmeno che esistesse un mestiere simile! Quando penso alle sculture di legno, penso ai vecchini di montagna, quelli con la barba lunga e il gilet di pelle di camoscio, che intagliano gli scarti dei tronchi nel tempo libero. Invece se devo pensare agli scultori mi vengono in mente Michelangelo, Bernini... quella gente lì, hai presente?» Apparve chiaro che l’arte entusiasmava Celeste.
«Se ho presente quella gente lì? Mi sono appena diplomato all’Accademia di Belle Arti e quei signori sono stati il mio sogno e il mio incubo per anni! Sono i miei maestri e al contempo li ho detestati quando ho dovuto studiarne vita, morte... e anche miracoli!»
«Di miracoli ne hanno fatti, a giudicare dalla bellezza delle loro opere!»
«Miracoli... non l’avevo mai vista in questa luce. Chi può sapere se alla base di tutto il loro lavoro non ci sia stata un’intuizione divina che li ha poi portati a estrarre figure che restavano semplicemente nascoste, celate sotto la materia.»
Si erano tutti ammutoliti, preoccupati di disturbare l’intuizione di Giulio.
«No, no: non mi guardate così. La verità è che questo è il mio primo e vero impiego “artigianale”. Sono qui perché l’arte è il mio modo di rendere il mondo un posto migliore. O almeno un po’ più bello. Che non è tanto, ma è un punto di partenza per un cambiamento. Ho scelto la specializzazione in scultura perché c’era qualcosa con questo verbo, estrarre, che non mi dava pace. Guardavo al passato e non potevo fare a meno di pensare che se si era capaci di tirare fuori un David da un blocco di marmo, allora la mia chiamata poteva essere simile: potevo anche io far emergere ciò che era nascosto nel mondo che mi circondava. Ciò che di bello e buono giace nascosto sotto la superficie... o sotto tonnellate di materiale!»
«È per questo che ci hai domandato che cosa si celava nel profondo del nostro cuore, prima?» chiese Ambra, che doveva essere rimasta colpita.
«Perché credo che ci sia così tanto di bello e buono in voi, che non potevo lasciarvi passare tutti tristi davanti a me! Spero di aver anche risposto alla tua domanda, Chicco.»
«Certo, tu sei qui perché le tue capacità e le tue forze ti hanno reso la persona adatta a questo ambiente... poco da artisti!»
«E a cosa stavi lavorando?» Celeste si sporgeva, tentando di afferrare il disegno complessivo.
«È un lavoro di fino... qualcosa all’apparenza molto banale, ma che voglio rendere unico e, in qualche modo, vero. Una casetta per gli uccelli!»
«È vero, guarda qui la finestrella, e quella è la bacinella per l’acqua! Oh Lele, ecco la soluzione: anche noi, su quella grande quercia, metteremo una casa... ma non per noi: per gli uccellini! Così verranno a farci compagnia e chissà, magari saranno proprio loro a suggerirci nuove, impensabili, avventure!»
«Sapete cosa vi dico? Se è quello che stavate cercando qua dentro, ve la regalo: è vostra!»
«Non stavamo cercando esattamente questo, ma forse è proprio quello di cui avevamo bisogno senza saperlo.»
Ormai tutti e quattro i bambini avevano dimenticato la delusione di non poter costruire la loro casa sull’albero e, raggianti, salutarono l’intagliatore per tornare a casa con un materiale imprevisto e sorprendente.
«Scusate, potreste farmi il favore di non passare per di là?»
Prima che la minuta figura che aveva pronunciato quella frase potesse raggiungerli, però, Chicco era già inciampato in un mucchietto di sottili scarti di legno, spargendoli nuovamente per la larghezza del corridoio. «Che disastro!» commentò il bambino, guardandosi intorno preoccupato. Quando vide arrivare di corsa una signora armata di scopa, la sua preoccupazione crebbe e iniziò a immaginarsi differenti, e terribili, punizioni.
«Ci dispiace tantissimo, non ci avevamo fatto caso, prometto che l’aiuterò a pulire! Cercherò un’altra scopa o un’aspirapolvere o qualche cosa di utile...»
«Sì, possiamo raccogliere noi tutto quanto e poi buttarlo nei cassoni all’uscita: ci stavamo dirigendo giusto lì.» Ambra andò in soccorso dell’amico.
All’udire ciò, la signora che si era precipitata verso di loro inorridì: «Buttarli? Assolutamente no. Non se ne parla nemmeno: se voi buttate tutti i miei trucioli, con cosa lavorerò io?».
«Non avevo mai visto nessuno così desideroso di pulire una stanza...» commentò Chicco sottovoce, in direzione dei suoi amici. I tre, d’altronde si stavano dimostrando sbalorditi quanto lui, nei confronti di quel nuovo incontro.
Osservarono la signora che avevano di fronte. Era molto bella, di quelle bellezze esotiche e non convenzionali. I tratti orientali erano delicati e gli occhi allungati erano di un colore intenso, nonostante il viso fosse insolitamente bianco per i loro standard, soprattutto considerata la stagione. I capelli neri e liscissimi erano per metà raccolti con due bacchette da sushi incrociate. Tutto questo fornì ai bambini un’ulteriore scusa per volersi fermare a parlare con lei.
«Siamo davvero mortificati, sia per aver sparso tutti i suoi... trucioli... per la stanza, sia per aver poi proposto di buttarli via.» Ambra prese il coraggio a nome di tutti, e si rivolse verso di lei. «Mi perdoni anche per la domanda: perché ci tiene così tanto a pulirli?»
«Io non voglio pulire i trucioli... ci voglio fare dei mobili!»
«Dei mobili? Con gli scarti? E io che pensavo di aver visto tutto per oggi...» disse Chicco.
«Sì, i trucioli sono i residui delle lavorazioni dei miei colleghi. Qualcuno li chiama “scarti”. Io, invece, preferisco considerarli come nuove possibilità e ho affinato una tecnica che mi permette di dar loro una nuova forma. E anche una nuova funzione!»
«Non avevo mai conosciuto nessuno che facesse questo mestiere» Ambra la guardava, sinceramente ammirata.
«Sono sicura che anche tu hai dei mobili fatti di trucioli in casa... semplicemente non ti sei mai chiesta di cosa fossero composti e da dove venivano!»
«Se mi posso permettere di andare avanti con le domande... come le è saltato in mente di fare questo mestiere?»
«Sentitevi liberi di farmi tutte le domande che volete: almeno mi terrete compagnia mentre rimetto insieme il mio mucchietto di lavoro» e sorrise affabile a tutti e quattro i bambini. «Come forse avrete già intuito, non sono nata in questo Paese. Quando arrivai in Italia con la mia famiglia, non potevamo permetterci molto. Non ci mancava niente, ma come regola principale vigeva un cartellino che era stato appeso alla porta della cucina da mia madre e recitava “Non si butta via niente”. Vestiti, cibo, quaderni, mobili... qualsiasi cosa poteva avere una nuova vita in casa mia.»
«Anche la mia mamma continua a ripetermi che devo finire quello che ho nel piatto perché non si butta via il cibo!» sbottò Celeste a cui, in verità, questa regola non era mai piaciuta un granché.
«Non si trattava però solo di ciò che era scontato riutilizzare, era esteso a tutto: anche a ciò che era rotto. Il mio Paese d’origine, il Giappone, è diventato famoso per una tecnica particolare che ha a che fare proprio con questo. Si chiama kintsugi ed è l’arte di riparare le ceramiche rotte con sottili congiunture di oro colato: così non solo puoi riutilizzare quello che pensavi di buttare, ma ciò che è rotto diventa addirittura più prezioso di qualcosa appena comprato.»
«È meraviglioso!» Ambra sembrava emozionata da questa nuova scoperta.
«Vieni dal Giappone?» Lele, al contrario, si era soffermato più sulla parte esotica del racconto.
«Il mio nome, Keiko, vuol dire sii grata. Questo si è riflesso nella mia intera vita: sono grata di ciò che mi è stato donato, di tutto quello che ho, di ciò che ho imparato. Non lascerò che ciò che mi è stato insegnato venga dimenticato. Io sono grata, per questo regalo una nuova vita a un materiale di scarto.»
«Incredibile, non avrei mai detto che una semplice falegnameria avrebbe potuto insegnarmi così tanto!» commentò Ambra, dopo che ebbero salutato Keiko, inforcando nuovamente la bici per ritornare a casa.
«Eravamo entrati convinti di poter costruire una casa sull’albero...» disse Celeste.
«E usciamo di qui con una casetta per gli uccelli.» Lele completò la frase, sventolandole la creazione dell’intagliatore davanti agli occhi.
«Sta a noi ora usarla al meglio... come la signora giapponese usa gli scarti della produzione di tutti gli altri!»
«Iniziamo ad appenderla alla tua quercia. Dobbiamo trovare il ramo più adatto: potrei fare due calcoli...» propose Chicco.
«Smettila di fare calcoli su calcoli e anche tu sii grato e custodisci quello che hai imparato: lasciati cogliere dall’imprevisto, proprio come ci è successo oggi» gli ricordò Ambra.
«Quello che ci aspetta sarà una meravigliosa avventura!» E con questo, Lele schizzò loro davanti, sulla sua bici rossa. «L’ultimo che arriva a casa mia sconta una penitenza!» Al suo urlo, gli altri tre si affrettarono a raggiungerlo, mentre il cielo si tingeva pigro dei colori di un tramonto estivo.
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1. La casa sull'albero 04Racconto.docx Tipo documento: Documento di Microsoft Word |
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