Prospettive bibliche sull’agire dell’uomo
Prospettive bibliche sull’agire dell’uomo
Approfondimento biblico
* Ricerchiamo nella Parola di Dio alcuni consigli per mantenere l’agire dell’uomo all’altezza della sua dignità originaria. Se confessiamo che l’uomo è creato a immagine e somiglianza di Dio (cfr. Gen 1,26), ne discende il fatto che il Signore ha assegnato un compito e un ruolo preciso a ogni essere umano.
* I primi due capitoli della Genesi ci presentano due racconti delle origini del creato e dell’uomo stesso. Li accogliamo come due testi che ci offrono spunti diversi per indagare il mistero della nostra origine e non cerchiamo di comporre le differenze che emergono nella lettura. Li leggiamo come prospettive distinte a partire dalle quali narrare la medesima vicenda.
* Se il racconto di Gen 1 presenta l’uomo solo alla fine, come compimento della creazione e destinatario “passivo” dei doni di Dio, in Gen 2,4b-25 l’uomo compare quasi subito ed è messa maggiormente in rilievo la sua collaborazione con l’opera creatrice di Dio.
* Emerge anzitutto una tensione ricorrente tra l’agire di Dio e l’agire dell’uomo: non c’è l’uno senza l’altro: «Nel giorno in cui il Signore Dio fece la terra e il cielo nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata, perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e non c’era uomo che lavorasse il suolo». La fecondità del suolo deriva dal dono gratuito di Dio (la pioggia) e dal lavoro dell’uomo.
«Il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita» (v. 7). L’uomo stesso si coglie come polvere della terra “imbevuta” di spirito divino: grandezza e miseria si incrociano nel suo essere.
* Dio ricerca il lavoro e l’attività dell’uomo: «Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse» (v. 15). Lo pone nel giardino perché lo “custodisca coltivandolo”: non si tratta dunque di passiva sorveglianza, ma di un agire attivo a servizio di un dono che ha ricevuto. Comprendiamo che nella prospettiva biblica l’agire dell’uomo è necessario alla creazione ed è benedetto da Dio. Notiamo che ciò è in contrasto con altre visioni dell’uomo: per la cultura greca infatti l’ideale dell’uomo libero era contrario al lavoro manuale, mentre per gli antichi miti del Medio oriente l’uomo è creato per “servire” gli dei.
* Ma in che cosa consiste il lavoro dell’uomo nel giardino? Dice la Bibbia: «Il Signore Dio plasmò dal suolo ogni sorta di animali selvatici e tutti gli uccelli del cielo e li condusse all’uomo, per vedere come li avrebbe chiamati: in qualunque modo l’uomo avesse chiamato ognuno degli esseri viventi, quello doveva essere il suo nome» (v. 19). Il primo gesto che l’uomo fa è dunque dare il nome agli animali. L’opera dell’uomo è sempre relazionale. È l’atto di un “io” che si coglie di fronte a un “tu”, è servizio finalizzato a far emergere il “tu” presente nella materia indistinta. Il fare dell’uomo è autentico se è “per” qualcun altro.
* È però il capitolo 3 di Genesi che ci aiuta a capire a quali condizioni il lavoro dell’uomo è benedizione per lui e per il creato stesso. A questo proposito è interessante soffermarsi sull’«albero della conoscenza del bene e del male», quell’albero il cui frutto Dio vietò all’uomo di mangiare (cfr. Gen 2,17). Non regge un’interpretazione che veda Dio “geloso” dell’uomo: essendone lui stesso il creatore, lo avrebbe potuto fare diversamente se ne avesse temuto qualche qualità.
Il divieto di mangiare del frutto dell’albero serve a custodire una differenza tra Dio e l’uomo. Fintanto che l’uomo si mantiene “solo” creatura, egli vive; nella misura in cui cerca di essere uguale al suo creatore, perde quanto aveva gratuitamente ricevuto.
* In modo plastico il racconto di Gen 3 mostra che l’uomo agisce bene solo rimanendo nel giusto rapporto con Dio. Quando esce dal rapporto col Signore, entrano in crisi tutte le relazioni fondamentali: con se stesso, con gli altri, con il creato intero.
Dopo il peccato l’uomo conosce lo scandalo del morire, scoprendone l’angoscia. Nei confronti della donna l’uomo sperimenta il sospetto, l’invidia, arrivando all’accusa reciproca: «[Dio domandò all’uomo:] “Hai forse mangiato dell’albero di cui ti avevo comandato di non mangiare?”. Rispose l’uomo: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato”. Il Signore Dio disse alla donna: “Che hai fatto?”» (vv. 11-13). È altamente sintomatica l’esperienza della “nudità”: ciò che non costituiva un problema prima di mangiare dell’albero («Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, e non provavano vergogna»: Gen 2,25), diventa subito fonte di imbarazzo reciproco appena consumato il peccato («Allora si aprirono gli occhi di tutti e due e conobbero di essere nudi; intrecciarono foglie di fico e se ne fecero cinture»: Gen 3,7).
In rapporto all’intero creato, la disobbedienza dell’uomo e della donna fanno loro scoprire l’esperienza della fatica e del dolore: «Alla donna [il Signore Dio] disse: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli […]”. All’uomo disse: “[…] maledetto il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba dei campi. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane…”» (Gen 3,16-19). Più che come punizione di un Dio offeso, ci sembra di leggere in queste frasi la spiegazione di due esperienze quotidiane che sembrano contraddire il disegno di bene della creazione: il dolore connesso al dono della vita e la fatica legata al lavorare derivano, per l’autore biblico, dalla disarmonia messa in campo dal peccato dell’uomo.
* Scrive a questo riguardo papa Francesco: «L’esistenza umana si basa su tre relazioni fondamentali strettamente connesse: la relazione con Dio, quella con il prossimo e quella con la terra. Secondo la Bibbia, queste tre relazioni vitali sono rotte, non solo fuori, ma anche dentro di noi. Questa rottura è il peccato. L’armonia tra il Creatore, l’umanità e tutto il creato è stata distrutta per avere noi preteso di prendere il posto di Dio, rifiutando di riconoscerci come creature limitate» (FRANCESCO, Laudato si’, 66). E ancora: «Tutto è in relazione e la cura autentica della nostra stessa vita e delle nostre relazioni con la natura è inseparabile dalla fraternità, dalla giustizia e dalla fedeltà nei confronti degli altri» (FRANCESCO, Laudato si’, 70).
* Sembra possibile mettere in luce quattro grandi direzioni da tenere presenti perché l’agire dell’uomo sia conforme al disegno divino e ultimamente degno dell’uomo stesso.
L’uomo è chiamato anzitutto ad agire bene, mettendo in gioco se stesso (agire per sé); poi deve tenere presente il bene degli altri (agire per gli altri); deve mantenere la responsabilità nei confronti del creato, evitando sprechi, custodendo l’esaurimento delle risorse, limitando l’inquinamento (agire per il mondo) e infine deve agire mettendosi a servizio del piano di Dio (agire per Dio). Lasciamo la parola ad alcuni papi dell’ultimo secolo per illustrare queste quattro dimensioni.
* Sul valore del lavoro dell’uomo per la sua stessa identità sono illuminanti le parole di san Giovanni Paolo II:
«L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché come “immagine di Dio” è una persona, cioè un essere soggettivo capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendente a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro. Come persona egli lavora, compie varie azioni appartenenti al processo del lavoro; esse, indipendentemente dal loro contenuto oggettivo, devono servire tutte alla realizzazione della sua umanità, al compimento della vocazione ad essere persona, che gli è propria a motivo della stessa umanità» (GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 6).«Il lavoro è un bene dell’uomo – è un bene della sua umanità –, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo e anzi, in un certo senso, “diventa più uomo”» (GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 9).
* Richiamano l’importanza del lavoro umano nella costituzione della società civile a servizio del bene degli altri le parole del beato Paolo VI:
«Dio, che ha dotato l’uomo d’intelligenza, d’immaginazione e di sensibilità, gli ha in tal modo fornito il mezzo onde portare in certo modo a compimento la sua opera: sia egli artista o artigiano, imprenditore, operaio o contadino, ogni lavoratore è un creatore. Chino su una materia che gli resiste, l’operaio le imprime il suo segno, sviluppando nel contempo la sua tenacia, la sua ingegnosità e il suo spirito inventivo. Diremo di più: vissuto in comune, condividendo speranze, sofferenze, ambizioni e gioie, il lavoro unisce le volontà, ravvicina gli spiriti e fonde i cuori: nel compierlo, gli uomini si scoprono fratelli» (PAOLO VI, Populorum progressio, 27).
* Un severo monito ad agire con responsabilità verso il mondo viene da papa Francesco:
«Non si può parlare di sviluppo sostenibile senza una solidarietà fra le generazioni. Quando pensiamo alla situazione in cui si lascia il pianeta alle future generazioni, entriamo in un’altra logica, quella del dono gratuito che riceviamo e comunichiamo. Se la terra ci è donata, non possiamo più pensare soltanto a partire da un criterio utilitarista di efficienza e produttività per il profitto individuale. […] “L’ambiente si situa nella logica del ricevere. È un prestito che ogni generazione riceve e deve trasmettere alla generazione successiva.” […] Che tipo di mondo desideriamo trasmettere a coloro che verranno dopo di noi, ai bambini che stanno crescendo?» (FRANCESCO, Laudato si’, 159-160).
* Infine è ancora san Giovanni Paolo II a illustrare il valore che l’agire dell’uomo ha nel servizio del regno di Dio:«Nella Parola della divina Rivelazione è iscritta molto profondamente questa verità fondamentale, che l’uomo, creato a immagine di Dio, mediante il suo lavoro partecipa all’opera del Creatore, ed a misura delle proprie possibilità, in un certo senso, continua a svilupparla e la completa, avanzando sempre più nella scoperta delle risorse e dei valori racchiusi in tutto quanto il creato» (GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 25).
* Per quanto riguarda la persona di Gesù, è nota l’attestazione evangelica del fatto che egli abbia trascorso la gran parte della sua vita terrena esercitando il mestiere del falegname (Mt 13,55; Mc 6,3). Ricordava san Giovanni Paolo II che «[Gesù], il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente “Vangelo del lavoro”, che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona» (GIOVANNI PAOLO II, Laborem exercens, 6). La discrezione dei Vangeli però ci deve suggerire di non indugiare troppo su questo aspetto, bensì di concentrare la nostra attenzione sulle azioni narrate dalla Scrittura. Scegliamo di concentrarci su un miracolo di Gesù, che fu «profeta potente in opere e in parole» (cfr. Lc 24,19).
* Nel capitolo cinque del Vangelo secondo Giovanni si narra della guarigione di un paralitico, seduto sotto i portici della piscina di Betzatà (Gv 5,1-23). È interessante che l’evangelista non si soffermi a descrivere come sia avvenuto il miracolo, cioè con quali gesti. Emerge con maggiore chiarezza anzitutto il fatto che Gesù si gioca in prima persona e paga le conseguenze del suo agire: va a ricercare il malato guarito e si presenta a lui (v. 14) e non teme di essere “perseguitato” dai Giudei, che lo accusavano di non rispettare il riposo sabbatico: «Per questo i Giudei perseguitavano Gesù, perché faceva tali cose di sabato» (v. 16). Anzi, l’agire di Gesù è occasione per rivelare la sua identità profonda, che riposa nella relazione con il Padre dei cieli: «Gesù disse loro: “Il Padre mio agisce anche ora e anch’io agisco”. Per questo i Giudei cercavano ancor più di ucciderlo, perché […] chiamava Dio suo Padre, facendosi uguale a Dio» (vv. 17-18).
* È degno di nota anche il fatto che Gesù cerchi costantemente una relazione interpersonale. La prima parola rivolta al paralitico può suonare quasi beffarda: «Gesù, vedendo [il paralitico] giacere e sapendo che da molto tempo era così, gli disse: “Vuoi guarire?”» (v. 6). Questa domanda non è una presa in giro di un uomo che non “trovava nessuno” che lo immergesse nelle acque miracolose della piscina, ma un esplicito invito a entrare in relazione, l’offerta di un’amicizia che provoca il malato a prendere posizione sulla propria salvezza.
* Ma ciò che conta di più è che Gesù agisce come ha visto fare dal Padre: «Il Figlio da se stesso non può fare nulla, se non ciò che vede fare dal Padre; quello che egli fa, anche il Figlio lo fa allo stesso modo» (v. 19). In risposta al tentativo orgoglioso di Adamo ed Eva di “farsi uguale a Dio” (cfr. Gen 3,5), Gesù confessa il fatto di non poter far nulla da sé, ma di riceversi continuamente dal Padre celeste. Proprio però per il fatto di mantenersi in questa relazione paterno/filiale Gesù può compiere miracoli, che sinteticamente sono denominati con l’espressione “dare la vita”: «Come il Padre risuscita i morti e dà la vita, così anche il Figlio dà la vita a chi egli vuole» (v. 21).
* Possiamo offrire allora un criterio sintetico sull’agire autenticamente umano. Lo esprimiamo con uno slogan: “l’agire di Gesù è dare (la) vita”. È anzitutto “dare vita”, cioè generare vita, dinamismo, possibilità nuove intorno a sé, come accade quando qualcuno fa bene il proprio lavoro, l’incarico che gli è stato affidato. Ma nel fare questo l’uomo “dà la vita”: il tempo che inevitabilmente si impiega per il lavoro è andato, non torna indietro. Ma, appunto, per chi lavora bene, quella vita data e irrimediabilmente “persa” rimane nei frutti del lavoro svolto.
* Per documentare l’urgenza di riscoprire un’autentica cultura del lavoro e dell’azione umana, bastino le parole cariche di drammaticità di papa Francesco:
«A che scopo passiamo da questo mondo? Per quale fine siamo venuti in questa vita? Per che scopo lavoriamo e lottiamo? Perché questa terra ha bisogno di noi? Pertanto, non basta più dire che dobbiamo preoccuparci per le future generazioni. Occorre rendersi conto che quello che c’è in gioco è la dignità di noi stessi. Siamo noi i primi interessati a trasmettere un pianeta abitabile per l’umanità che verrà dopo di noi. È un dramma per noi stessi, perché ciò chiama in causa il significato del nostro passaggio su questa terra» (FRANCESCO, Laudato si’, 160).